Sorride dolcemente la signora Angela Filardo, 82 anni, mentre mostra orgogliosa a noi volontari del Servizio Civile per il progetto La grande bellezza i vestiti che ha realizzato a mano. “Questo è il sottogonna, questo u’ mantisinu, questo tutto ricamato è lu maccaturu…Li ho fatti tutti io, vedete?”. Si respira un’aria diversa nella sua casa del rione Piedichiusa (non Piducchiusa, ci tiene a precisare la signora, “Pedichiusa significa ai piedi del castello, poi però a ‘ggenti u storpianu!”), densa di tradizioni mai abbandonate e di una quotidianità lenta, antica, anche se a due passi dalla città. La signora Angela ci ospita per parlarci della Corajisima, un’antichissima tradizione pasquale che affonda le sue radici nel culti pagani (probabilmente dionisiaci), mescolatisi facilmente con l’eredità cristiana in una terra di sincretismi quale la Calabria, e che Angela porta orgogliosamente avanti nel quartiere: “La faccio solo io nel rione, tutti la vengono a vedere!”.
Il rituale prevede di appendere sul terrazzo una bambola di pezza vestita di nero che rappresenta la vedova del Carnevale e che reca con sé un’arancia o un limone su cui vengono conficcate sette penne di gallina da strappare, una dopo l’altra, ogni domenica di Quaresima fino alla Pasqua. Accompagnano il fantoccio di pezza una conocchia ed un fuso, che raffigurano l’ineluttabilità dello scorrere del tempo e due pesci essiccati, che simboleggiano l’astinenza dalla carne prescritta durante la Quaresima. Dopo la domenica delle Palme, entrando nella settimana Santa, la Corajisima viene conservata per poi ricomparire la domenica di Pasqua, quando, dopo aver tolto l’ultima penna, dovrebbe essere bruciata nel fuoco con funzione apotropaica o, come fa la signora Angela, riposta per essere riutilizzata l’anno successivo. “I miei nipoti mi dicono di buttarla e rifarla perché è vecchia e rovinata, ma io non sono d’accordo. Allora dovrebbero buttare pure me che sono più vecchia della Corajisima!”.
Sorride ancora, la signora Angela, quando ci parla della sua giovinezza, di come ha conosciuto il marito a scuola (“Alcuni distraevano la maestra e io gli passavo il tema o il problema perché lui i compiti non li faceva mai!”), delle sue ricette preferite e dei tanti nipoti. E quando, nostro malgrado, dobbiamo congedarci da lei e le chiediamo un consiglio per le nuove generazioni ci risponde, ancora una volta sorridendo: “Dovete volervi bene, parlare sempre di tutto e non dimenticarvi di noi anziani”.
Benedetta Graziano
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